di Bianca Bonavita
Se non fosse che l’Italia è stata ufficialmente decretata campo di concentramento e di sperimentazione, verrebbe voglia di tacere.
Verrebbe voglia di tacere perché lo era anche prima, campo di concentramento e di sperimentazione.
Solo che prima i cavalli di frisia erano invisibili perché forse più occhi li avrebbero visti, ora che di occhi in grado di poterli vedere non ce ne sono quasi più, possono infilzare l’aria con tutte le loro aguzze spire di metallo.
Le pecore sanno che fuori c’è il lupo cattivo e si dimenticano del recinto, il recinto le protegge perché il pastore le possa mungere e all’occorrenza mangiarsele. Ma questo le pecore non lo sanno, o forse sta loro bene così perché il recinto in fondo è grande e l’erba che vi cresce è green, con un bel packaging e senza olio di palma.
Verrebbe voglia di tacere perché un po’ le pecore se lo meritano il pastore, il recinto e tutto il resto.
Verrebbe voglia di tacere perché da protettorato a “zona protetta” in fondo non cambia niente e degli eufemismi totalitari non ci siamo mai liberati.
Verrebbe voglia di tacere per vedere fino a che punto si è disposti a farsi recintare, a farsi terrorizzare, a farsi movimentare e immobilizzare.
Verrebbe voglia di tacere perché in questi giorni la notte è più buia, il boato di morte e motori che sale dalla pianura più flebile, l’aria più buona.
Verrebbe voglia di tacere perché magari un giorno l’assalto ai supermercati non avverrà più in file ordinate a un inutile e patetico metro di distanza, e magari le rivolte usciranno dalle carceri e si scoprirà che il vero stato di emergenza è proprio nascosto nell’occhio del ciclone dello stato di eccezione.
Verrebbe voglia di tacere perché forse colui che trattiene si è stancato di trattenere e magari, come in un sogno, dopo le persone si fermeranno anche le merci. (Come se si potesse fermare le une e non le altre. Come se fossero due cose separate.) Le fabbriche smetteranno di fabbricare e gli uffici di officiare, i genitori riscopriranno quanto è bello crescere insieme alle loro figlie e non vorranno più rinchiuderle nelle scuole.
E magari, magari, si fermeranno anche i server, i ripetitori e i satelliti.
Verrebbe voglia di tacere per rivivere i propri luoghi senza turisti, per abitare finalmente i propri luoghi senza l’ansia di dovere essere sempre altrove, per lavorare o per riposarsi dal lavoro.
Verrebbe voglia di tacere per lasciare che muoia il turista che hanno impiantato in ogni persona.
Eravamo pronte da tempo qui sulla collina, ci sono damigiane di vino, taniche d’olio e sacchi di grano, ci sono semi già germinati e semi da seminare, alberi in fiore e alberi da far legna.
Verrebbe voglia di tacere per vedere le città esplodere e, finita l’ultima scatoletta da saccheggiare, vivere il giorno del giudizio qui sulle colline, quando si dovrà decidere se scannarsi per il pane o sedersi a mangiare insieme.
Verrebbe voglia di tacere perché nuda vita eravamo, nuda vita resteremo.
Verrebbe voglia di tacere nel rispetto di chi muore, ogni giorno, per cancro da inquinamento (che nessun decreto d’emergenza ha mai fermato), da cibo industriale (che nessun decreto d’emergenza ha mai fermato), da vita di merda (che nessun decreto d’emergenza ha mai salvato), di chi muore per un cuore che si ferma troppo presto, di chi muore ogni inverno d’influenza perché è arrivato il suo inverno, da quando l’inverno si chiama inverno e agli alberi cadono le foglie.
Verrebbe voglia di tacere per la confusione, il fumo negli occhi e i fiumi di parole.
Verrebbe voglia di tacere perché tutti hanno qualcosa da dire.
Verrebbe voglia di tacere perché in fondo non conta niente se è un’influenza come le altre o meno, se è un attacco bio-economico a Cina e Iran, un piano per affossare l’Italia o l’Ue, un esperimento di riduzione della popolazione, un’ esercitazione globale di una nuova fase dello stato di eccezione, l’inizio di una delle periodiche crisi di cui il sistema capitalista ha bisogno per rigenerarsi, un complotto delle case farmaceutiche o l’inizio di una nuova forma di guerra planetaria. Comunque sia, arriverà il momento in cui la Terra si libererà di noi.
E farà bene.
Verrebbe voglia di tacere, per tutti i dubbi che ci attraversano, e anche per le certezze che alla fine ci restano, ma che alle fine ci fanno parlare.
Verrebbe voglia di tacere se non fosse che l’Italia è stata ufficialmente decretata campo di concentramento e di sperimentazione, “dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.” (Primo Levi, I sommersi e i salvati).
Bianca Bonavita ha scritto, per Pentagora: Humus. Diario di Terra. e Discola. Descolarizzare ancora la società.
Marzo 17, 2020 il 8:17 am
Non sono d’accordo. E mi permetto di rispondere citando (non a memoria) proprio Primo Levi, cui un giornalista aveva chiesto se trovava dei collegamenti tra il lager e il manicomio, dove un ricoverato aveva appena (anni Sessanta) pubblicato un libro di poesie in cui si rappresentava, tra l’altro, questa similitudine.
Levi fu duro nella risposta, irritato: no, non c’era nessuna somiglianza. Anche il manicomio rappresenta una istituzione repressiva, certo. Ma nel lager nessuno avrebbe mai pubblicato poesie. Nessuno le avrebbe mai neppure scritte, perchè essere colti nell’atto della scrittura equivaleva a morire.
Non vedo cavalli di frisia, anche sforzandomi. Non vedo imposizioni violente di stili di vita. Tant’è vero che chi ha voluto s’è ritirato in campagna, coltiva, condivide, ama e prega come gli pare. Utilizzando infine quelle stesse tecnologie, energie e sostanze chimiche che il tanto vituperato progresso ha messo a disposizione.
E’ forse questo un mondo perfetto? Assolutamente no. Siamo in cammino, come umanità. Liberarsi dal lavoro servile sarebbe già un buon punto programmatico. Ma la strada è lunga, ardua ed è facilissimo compiere errori.
Primo Levi, liberato dal campo, è tornato a fare il chimico, in una industria chimica, e della chimica ha sempre parlato con rispetto, con passione. E’ stato dirigente d’azienda e in quella posizione ha raggiunto la pensione. Dunque il “Ghetto nel quale siamo tutti” non è forse la stesso ghetto metaforico di Bianca, quanto il grave rischio di ritrovarsi realmente ghettizzati per provenienza, colore della pelle, orientamento sessuale, religioso, livello economico, capacità di esprimersi, abilità al lavoro, comprensione di una lingua. E ci stiamo rendendo conto di quanto il modello dei campi di concentramento (quelli tangibili) siano atrocemente presenti nel nostro tempo, come aveva preconizzato Primo Levi.
Marzo 18, 2020 il 8:55 am
Caro Alessandro, ben venga il tuo disaccordo!
Citando, non a memoria, Agamben in Homo Sacer: Il campo è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola.
In questo senso va inteso il nostro intervento. Campo come paradigma biopolitico della modernità.
I campi tangibili che tu giustamente nomini crediamo siano solamente delle singole manifestazioni del grande campo biopolitico in cui siamo tutte rinchiuse. E non metaforicamente. Le libertà stesse, che oggi ci sono sospese, non sono altro che dispositivi interni di questo campo.
Da tempo la governamentalità si dispiega attraverso uno stato di emergenza continuo, o stato di eccezione permanente.
Possiamo far finta di non vedere, ma ciò che sta accadendo oggi in Italia ha poco a che vedere con un’emergenza sanitaria. Forse nemmeno la peste nera giustificherebbe una sospensione totale delle garanzie costituzionali più elementari come quella di movimento. (In alcuni luoghi si sta perseguendo come untore chi si azzarda a camminare per la strada senza un valido motivo). Le uniche necessità riconosciute per potersi muovere restano quelle di andare a lavorare o di andare a comprare cibo industriale e malsano nei supermercati, ovvero non resta che la libertà di produrre e di consumare.
Lo stato di eccezione diventa regola e si apre quindi lo spazio del campo con tutte le sue dinamiche:
abusi di potere da parte di chi ne detiene una pur minima briciola, umiliazione della propria dignità umana, delazione, sospetto, paura di disobbedire, controllo attraverso il terrore.
Non si tratta di far coincidere il lager di Levi con il nostro campo ma se c’è una cosa a cui può servire lo studio di quel passato (ridotto troppo spesso, soprattutto quando si parla di memoria del lager, a puro esercizio retorico) crediamo sia il riconoscimento del ripresentarsi, se vuoi in forme e concentrazioni diverse, dei meccanismi o dei dispositivi che lo rendono, in ogni momento, possibile. Quelle dinamiche di cui sopra che ci sembrano oggi riproporsi prepotentemente.
Possiamo far finta di non vedere ma in questi giorni drammatici stiamo vivendo in uno stato di polizia medico-tecnocratico.
E in un campo.
Un abbraccio a norma di legge…
Bianca
Marzo 18, 2020 il 2:09 pm
Permane il disaccordo. A me pare una forzatura di concetti, di parole. Sarà perché sento parlare di lager troppo spesso fuori luogo, come ha fatto Salvini a proposito delle foibe, come ha fatto il papa a proposito dell’aborto, come fanno altri numerosi politici paragonando lager e gulag.
A me piacciono le distinzioni, forse addirittura le speculazioni finalizzate a definire oggetti, persone, relazioni.
“Pane al pane, vino al vino”, si diceva un tempo. Non mi piace riempire una parola di significati (espliciti o sottesi) per dimostrare una teoria che ho in testa. Il lager è stato un caso unico e ineguagliato della storia umana, il sistema concentrazionario nazista non ha simili. Il significato di tutto questo deve essere univoco, chiaro, non interscambiabile. Se mancano le parole o i concetti, bisognerà forgiarne di nuovi.
Questo non è un lager, tant’è vero che noi discutiamo amabilmente, peraltro sazi, curati, riscaldati, vestiti, e senza che tra di noi corra un filo d’odio o di invidia o di paura. Ma anzi, permettimi, il reciproco rispetto che abbiamo avuto conoscendoci proprio attraverso questo scambio.
Come in altre occasioni che mi sono capitate, credo che tra noi le visioni non siano sanabili, pacificabili. Non per questo smetterei di leggerti.
Un abbraccio.
Ale
Marzo 18, 2020 il 7:22 pm
Figurati!La nostra risposta non aveva l’ambizione di convincere o di farti cambiare idea. Era solo per chiarire meglio il nostro pensiero.
Un abbraccio.
BB
Luglio 18, 2020 il 10:54 pm
Meglio tardi che mai….ho avuto modo solo adesso di “incontrare” Bianca perché ho sentito che stasera è a Torre Pellice…e io sono distante….così ho cercato qualcosa.
Vabbè, in questi mesi pensieri e reazioni erano proprio quelli che scrive.
Alessandro, spero che ti capiti di esclamare “Minchiaaaa” per qualcosa che ti colpisce, senza dopo andare in analisi perché minchia ha un altro significato, ma lì rendeva proprio l’idea.
Qualunque repressione ha sempre quella dinamica di fondo, di essere contro l’intenzione di vivere in libertà, senza definire l’etimologia, ma con la scelta di stare di qua o di là. E se ci capita di essere rinchiusi, non è detto che moriamo prima che ci ammazzino.
La correttezza spesso è una scusa per far finta di……
Mauro
Luglio 19, 2020 il 3:02 pm
Eh ma così è troppo difficile per me… Mauro, bisogna che lei si spieghi meglio perché non ci arrivo. Dove avrei dovuto esclamare (o non esclamare) ‘minchia’ e perché?
Essere contro l’intenzione di vivere in libertà? Etimologia? Morire prima che…? La correttezza…?
Sembrerebbe una supercazzola. Sembrerebbe, ma son certo di essere duro di comprendonio. Saluti.
Luglio 19, 2020 il 5:29 pm
Eh sì, non posso dire di comprendonio, non penso proprio, non mi permetto, ma un vero duro sì.
Ho quasi invidia, di questi tempi poi….
Agosto 7, 2020 il 12:11 pm
Buongiorno,
grazie a Chiara per la poesia, che tale è, a mio parere.
Aggiungerei, con molta sobrietà e rispetto, che il sig. Alessandro non ha colto il senso dello scritto, lager o non lager ……
…. o forse non l’ho copito io, pero’ quello che ho percepito mi appaga e ne sono partecipe …
Agosto 7, 2020 il 9:40 pm
Compaio qui solo per dire che leggo, prendo atto, non ho nulla sa aggiungere. Buona serata.